Datification. Intervista a Simona Amati

La rivoluzione digitale sta trasformando il mondo del lavoro. Molte professioni diventano anacronistiche, mentre altre nascono. Fin qui, tutti d’accordo. Ma non basta: per chi si occupa di ricerca, selezione e in generale di gestione delle persone è necessario considerare che anche la valutazione dei talenti è cambiata nell’era digitale. Non comprenderlo comporterebbe – paradossalmente – il rischio di trovarsi nella metà anacronistica del mondo del lavoro.

In particolare, l’ascesa della tecnologia ha provocato un grande dibattito non solo rispetto alle competenze più ricercate per competere nell’era digitale, ma anche agli strumenti attraverso i quali queste competenze saranno individuate e misurate. Per fare il punto della situazione, ne abbiamo parlato con Simona Amati, partner di Keystone, psicologa, esperta di talent assessment e attenta osservatrice dell’evoluzione digitale nel mondo del lavoro.

Qual è lo stato dell’arte? Saranno i big data a scegliere i candidati? O addirittura è già così?
La cosiddetta datification of talent, cioè l’uso dei big data nella selezione e valutazione dei talenti, è già presente, per lo meno nel mondo delle multinazionali globali, che ne sfruttano appieno le economie di scala. Al di fuori di questo contesto si oscilla ancora tra l’entusiasmo e la diffidenza, come è tipico della fase iniziale di ogni cambiamento. Personalmente ritengo che la risposta risieda in un equilibrio, in gran parte ancora da costruire, fra le nuove metodologie di identificazione dei talenti e gli strumenti tradizionali. La mia non è, si badi bene, una posizione rassicurante, di comodo. Al contrario, per giocare un ruolo attivo in questo nuovo equilibrio noi professionisti delle HR dovremo comunque cambiare, abbandonare la comfort zone: quindi il viaggio si preannuncia interessante ma faticoso.

All’interno della datification, una delle tendenze principali è la gamification: è corretto?
Ci sono diverse tendenze in atto, e quella che riguarda il gioco è una delle principali, se non la principale. Vista la diffusione dei giochi, soprattutto tra gli under 35, si è pensato di usarli per rilevare dati utili rispetto alle caratteristiche di personalità. All’interno di questo fenomeno sono stati individuati due modelli diversi. I gamified assessment sono strumenti attitudinali classici, paragonabili ai test di tipo situazionale, presentati sotto forma di gioco: hanno generalmente una discreta solidità dal punto di vista psicometrico ma hanno notevoli problemi di costo di costruzione e di manutenzione. I game based assessment, invece, sono test di personalità sotto forma di gioco, molto coinvolgenti ma che, almeno ad oggi, non possono ancora vantare una sicura validità psicometrica. Il vantaggio di questi ultimiassessment è che sono veloci, coinvolgenti e capaci di attrarre di più soprattutto i millennials. Anche per questo motivo sono molto utilizzati dalle aziende che vogliono posizionarsi come culturalmente innovative sul mercato dell’employer branding.

Hai detto che quella della gamification è solo una delle direzioni intraprese dall’assessment digitale. Quali sono le altre?
Uno studio recente di Tomas Premuzic Chamorroe colleghi articola il fenomeno della datification in quattro grandi aree che sembrano avere un serio potenziale di crescita. Oltre alla gamification ci sono: interviste digitali e voice profiling; social media analytics, web scraping e text analytics; internal big data e talent analytics.

Possiamo provare a definirle un po’ più in dettaglio?
La prima si basa sulla possibilità di sviluppare sistemi in grado di identificare le micro emozioni che i candidati esprimono durante video-interviste preregistrate. In alcuni casi, attraverso software di voice profiling, vengono selezionate le voci che hanno maggior capacità di suscitare emozioni positive nell’ascoltatore. La seconda, social media analytics, come dice il nome stesso, si basa sulla relazione, studiata in particolare all’università di Cambridge, tra le digital footprints, cioè le tracce che le persone lasciano quando utilizzano i social media, e le caratteristiche di personalità e QI. Oppure si analizzano tramite processori linguistici testi liberi, evidenziando l’uso di termini correlati a determinate caratteristiche di personalità. Inutile dire che questi metodi innescano un dibattito rilevante rispetto ai temi della privacy e della stessa legalità.

Infine ci sono i dati che si sviluppano all’interno dell’azienda.
Esatto. Sotto la definizione di internal big data e talent analytics si intende l’uso dei big data che le aziende producono internamente per identificare segnali di talento. In pratica si creano dei modelli predittivi che mettono in relazione il capitale umano con l’efficienza organizzativa e le performance. Un esempio? Si possono prevedere dei miglioramenti nelle vendite di una determinata business unit basandosi su dei precisi comportamenti dei dipendenti (es. mail inviate, numero di telefonate o qualsiasi tipo di comportamento quotidiano che possa essere tracciato). Attraverso l’intelligenza artificiale si colgono i fattori critici di successo o insuccesso nell’attività di vendita rendendo disponibili per i manager informazioni preziose per creare team altamente performanti.

In conclusione, a che punto siamo?
Lo abbiamo anticipato in apertura di questa chiacchierata. Diciamo che viviamo una sana dialettica fra un mondo di metodi di valutazione di lunga tradizione e nuove tendenze che sfruttano le opportunità offerte dalla tecnologia, oggettivamente impressionanti, specie quando applicate su una scala molto vasta.

Qual è il ruolo dei professionisti dell’HR in questo grande cambiamento?
Vedo due rischi simmetrici: da un lato quello di derubricare la datification of talent a moda passeggera e rifiutarla in modo aprioristico, con il rischio di diventare automaticamente parte del passato; ma allo stesso tempo dobbiamo guardarci dai facili innamoramenti e pretendere lo stesso rigore metodologico, la stessa accuratezza che abbiamo affinato nei metodi tradizionali: dobbiamo accompagnare questo cambiamento con intelligenza, seguendo l’evoluzione della ricerca, continuando a imparare. Come sempre, insomma, le scelte di fondo toccano a noi, alle persone.