La solitudine del Manager

Primi anni ’90, azienda italiana di grandi dimensioni, le 9 del mattino, orario di ingresso dei dipendenti.

Nell’ampia reception sei o sette persone attendono i due ascensori che li porteranno ai rispettivi piani.

In quel momento arriva il nuovo Amministratore Delegato, un manager di spessore dallo standing signorile, sorriso garbato, si potrebbe definire nell’insieme un gentleman.

Saluta con un sorriso e attende l’ascensore. I sei-sette dipendenti salutano a loro volta, il chiacchiericcio si zittisce, qualche cenno di sorriso e poi le porte dei due ascensori si aprono contemporaneamente. L’AD entra in quello di destra, tutti gli altri, compatti, in quello di sinistra. Lo sguardo dell’AD esprime un cenno di perplessità, quasi un lieve imbarazzo, poi la porta si chiude. Arriva al suo piano, sulla soglia l’Assistente lo accoglie con un sorriso, una pila di cartellette sul braccio e insieme si avviano lungo un corridoio che conduce alle sue stanze, sconosciute e inaccessibili ai più.

Perché questo racconto? Perché è vita vissuta e da qui ha origine una riflessione che desideriamo condividere con chi ha l’interesse e la voglia di leggerci: la solitudine del manager.

È un tema antico ma quanto mai attuale, emerso puntualmente anche nel corso del Keystone Encounter realizzato di recente con un gruppo di HR Director, durante il quale sono stati discussi temi organizzativi di grande interesse.

Per solitudine intendiamo quella del leader che non deve chiedere mai. Un profumo per gli uomini forti fu pubblicizzato così, appunto. Ci siamo domandati quali convinzioni abbiano consolidato l’immagine del manager che affronta il proprio mandato sapendo sempre cosa e come fare, senza dubbi, senza mai incertezze.

I concetti sono assoluti: “sempre, mai, devo, bisogna, presto” … e sono fondati sul presupposto che, chi ricopre quella posizione, debba necessariamente sapere tutto, prevedere tutto, decidere presto e bene.

La possibilità di dire che non sa, di esplicitare il bisogno degli altri, di un tempo per riflettere, sostanzialmente di chiedere, queste opzioni gli sono vietate perché ne va della sua reputazione.

Il pensiero che ricorre è “viene pagato per questo, altrimenti che ci sta a fare lì?”

E invece riteniamo che chi “sta lì” abbia il compito di gestire con il contributo dei talenti presenti nell’organizzazione, di guardare le possibili scelte da prospettive diverse, di saper mettere e mettersi in discussione, di ampliare lo sguardo formulando domande corrette e ascoltando attentamente le risponde. Poi, certamente, assumersi la responsabilità di decidere.

La credibilità non si perde se si ammette di non sapere, la credibilità si perde se si ritiene di sapere tutto in modo acritico, se si ha la presunzione di fare sempre la cosa giusta e da soli.

La solitudine manageriale si fonda su relazioni verticali spesso formali e competitive che lasciano poco spazio all’espressione affettiva e di contatto, privilegiando lo sviluppo di altre forme di capacità. In questa situazione, o meglio in questa cultura organizzativa, il ruolo produce un circuito di isolamento da cui è difficile uscire.

Nel libro “Se solo potessi…creare relazioni efficaci” – Max Formisano, Davide Tamboni, 2013, Gribaudi Edizioni – si legge in un passaggio:

“Il capo, condannato a vivere al vertice di una piramide dove si aggira il vuoto dell’isolamento, si è chiuso in una trincea da cui tutti gli appaiono come nemici. E’ convinto di salvarsi allontanando il pericolo del contatto. Niente contaminazioni con chi gli sta vicino, perché potrebbero costituire un pericolo per la sua posizione.”

Spesso è la paura del giudizio ad aleggiare minacciosa intorno al manager.

In un articolo qualche anno fa – E.Gaiardoni, intervista Formisano, Il Giornale, 2014 – l’80% dei manager intervistati dichiarava di non avere nessuno con cui poter entrare in confidenza e il 70% esprimeva il desiderio di voler parlare con capi, colleghi o collaboratori senza sentirsi sotto giudizio.

C’è però anche il polo opposto: colui che ricerca volutamente lo status di “inavvicinabile”, chi vuole stare da solo al timone di una barca con la convinzione di condurla seguendo una rotta che solo lui conosce. In questo caso la solitudine è coltivata come un potere e forse solo i risultati potranno confermare o scalzare la sua posizione.

In una cultura organizzativa gerarchica e piramidale la concezione del leader irraggiungibile è data per scontata. La lettura è drammaticamente semplice: un diffuso senso di deresponsabilizzazione permea ogni snodo funzionale, per cui le decisioni vengono demandate a chi occupa la posizione “più in alto” fino ad arrivare alla cima della piramide.

Dunque, i leader sono destinati a rimanere in una gabbia (apparentemente) dorata, quasi fosse il prezzo da pagare per ricoprire ruoli di responsabilità nel mondo aziendale?

Abbiamo una buona notizia, perché c’è un antidoto che libera dai lacci della solitudine ed è la fiducia.

Stephen M.R. Covey nel suo libro “La sfida della fiducia” – Franco Angeli, Milano, 2008 – descrive 5 onde intese come metafore di come la fiducia impatti sulle nostre vite: la prima onda riguarda noi individualmente (fiducia in se stessi), continua nelle nostre relazioni (credibilità), si espande nelle nostra azienda (engagement), si estende al mercato (employer branding) e infine all’intera società (il proprio contributo per dare valore).

La fiducia di se stessi, delle proprie capacità, dei risultati ottenuti, dei limiti e della propria storia fatta di successi e di fallimenti, è il primo passo per dare fiducia all’altro ed è il fondamento delle relazioni.

La fiducia è una risorsa che produce autorevolezza e l’autorevolezza offre la libertà di esprimersi senza mai sentirsi sminuiti, anzi è generatrice di empowerment personale e relazionale.

Dunque, un altro modello di relazioni è possibile nelle organizzazioni che favoriscono una comunicazione circolare, dove i manager non hanno bisogno di trincee perché non c’è nessun nemico da cui difendersi.

Vorremmo concludere proponendo al lettore che ci ha seguito fin qui, alcune parole che ci sembrano inclusive: confronto e non giudizio, coraggio e non timore, permesso e non divieto, insieme e non soli.

 

Federica Artiaco A cura di Federica Artiaco – Senior Partner Keystone